La capacità di differenziazione dell’immagine di un’impresa e quindi la possibilità per essa di diventare sempre più attrattiva per i consumatori di un certo prodotto o servizio, passa anzitutto per la scelta dei segni distintivi di cui dotarsi ed in particolare del marchio, che, unitamente alla ditta, è il segno distintivo che riceve la disciplina più puntuale da parte dell’ordinamento italiano. Vediamo, dunque, in che modo in cui esso è tutelato dalla legge e a quali soggetti tale tutela è accordata.
Anzitutto la disciplina dettata a tutela del marchio e dell’immagine commerciale di un’impresa prevede un’azione di nullità esperibile da parte del titolare del diritto sul marchio anteriore ogni qualvolta il segno distintivo confliggente manchi dei requisiti di validità dalla legge richiesti, ossia capacità distintiva, carattere di novità, liceità e rispondenza al principio di verità. Il diritto dell’imprenditore all’uso esclusivo del segno scelto per contraddistinguere i propri prodotti è poi tutelato tramite la previsione di una specifica azione di contraffazione, la quale non presuppone necessariamente la sua registrazione ed investe il giudice di un giudizio circa la confondibilità o meno con altri segni presenti sul mercato. Peraltro, se con l’azione di nullità il titolare del marchio propone al giudice una domanda di accertamento circa la sussistenza dei requisiti di validità del marchio concorrente, a colui che propone l’azione di contraffazione si prospetta un ventaglio di possibilità di gran lunga maggiori potendo richiedere non soltanto che sia accertata la confondibilità dei marchi, quanto altresì che venga inibito l’utilizzo del segno distintivo, disposta la distruzione degli oggetti contraffatti e la pubblicazione della sentenza, nonché riconosciuto il risarcimento del danno prodotto dal contraffattore, qualora ricorrano i presupposti di cui all’art. 2043 c.c.
La tutela accordata dalla legge italiana al marchio non si arresta alle azioni sinora menzionate. Non sono rari i casi in cui sia possibile addirittura ipotizzare una concorrenza tra l’azione di contraffazione e l’azione di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c., la quale presuppone piuttosto la confondibilità dei prodotti delle imprese concorrenti. Ciò equivale a dire che l’attività illecita, consistente nell’appropriazione o nella contraffazione di un marchio e realizzata mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall’impresa concorrente, potrà essere dedotta a fondamento non soltanto dell’azione di contraffazione a tutela del diritto di esclusiva sul marchio, quanto altresì e congiuntamente, a fondamento dell’azione di concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia realizzato una confondibilità fra i prodotti .
Tuttavia, affinché si configuri l’illecito concorrenziale è necessario che ricorrano quanto meno due presupposti di natura soggettiva, e dunque la qualità di imprenditore tanto dal lato attivo che da quello passivo, nonché la sussistenza tra le imprese del c.d. rapporto di concorrenza, da intendersi quale destinazione dei propri prodotti o servizi alla medesima categoria di consumatori. Ciononostante, è il caso di domandarsi se la tutela specificamente pensata per l’imprenditore sia estendibile anche a tutti quei soggetti che operino nel mercato sotto una diversa veste. Ciò a maggior ragione se si considera che la registrazione del marchio e quindi il massimo grado di tutela per esso previsto, è consentita dal codice della proprietà industriale non soltanto alle imprese, ma anche ad altre tipologie di persone giuridiche private quali associazioni, cooperative, fondazioni o consorzi.
In proposito, al fine di consentire un’applicazione analogica dell’art. 2958 c.c. anche ai casi in cui protagonista non sia un imprenditore, ma ad esempio un libero professionista o un’associazione di persone, la giurisprudenza ha cercato di valorizzare l’elemento della stabile organizzazione anche in assenza del tipico scopo di lucro cui generalmente è improntata l’attività imprenditoriale. Con sentenza resa pubblica il 21.05.2004 il Tribunale di Roma ha sostenuto la possibilità di ricomprendere nella nozione di imprenditore contemplata dall’art. 2598 c.c. anche quei soggetti sprovvisti dei requisiti di cui all’art. 2082 c.c., ma che tuttavia svolgano in via secondaria un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, potendo l’esercizio secondario di un’attività organizzata in forma di impresa conciliarsi con l’assenza di uno scopo di lucro tipica di taluni enti e persone giuridiche.
Si registra, pertanto, in giurisprudenza la volontà di superare quella chiusura soggettiva che pare caratterizzare la normativa in materia di concorrenza sleale, tentando di riportarla in linea con la tutela massima accordata dal codice della proprietà industriale anche a tutti coloro che non siano titolari di un’impresa e che non svolgano un’attività propriamente commerciale.